Ricordi di Campeggio


Come si viveva a Campeggio
al tempo dei nostri nonni
di
Luigi Dardani

Con l’unificazione dell’Italia, Campeggio, Stato del Vaticano, cessò di essere un territorio di confine col Gran Ducato di Toscana, e un naturale rifugio di banditi e contrabbandieri. Nel nuovo clima nazionale si dileguarono presto anche i ricordi dei delitti e del brigantaggio dei tempi passati. Ma il tenore di vita delle famiglie di Campeggio continuò a risentire pesantemente dell’isolamento della zona e della cronica povertà di risorse economiche. Una sola mulattiera partiva da San Benedetto del Querceto e collegava con la Val d’Idice; e un’altra con Monghidoro attraverso Madonna dei Boschi. Le altre vie erano poco più che piste campestri di collegamento tra le case, i terreni, il mulino, la chiesa. Le percorrevano barrocci trainati da bovi, muli e asini da basto, e naturalmente la gente a piedi.

La prima bicicletta comparve a Campeggio nel 1930. Le colture dei campi, agli inizi di questo secolo, si limitavano al fabbisogno familiare, nel solco delle tradizioni, senza selezioni o innovazioni di sorta. Il grano era poco; si viveva di polenta di granoturco, di castagne e di farina di castagne. Le prestazioni d’opera in agricoltura venivano abitualmente compensate in generi; e chi poteva, col latte di mucca e di pecora faceva i formaggi da grattugiare come condimento tutto l’anno. I pascoli demaniali della Martina erano ricchi di pecore ma i pastori producevano in genere solo per il mercato. Il lavoro della terra comportava molta fatica di braccia, ma consentiva la sufficienza economica della famiglia.

I ragazzini dovevano raccattare la legna, raccogliere radicchi di campo o funghi, o trifola, o andare a caccia di frodo con trappole e laccioli. Anche le famiglie più povere allevavano qualche coniglio e gallinelle. D’inverno, al calduccio delle stalle ospitali raccoglieva alla sera tutto il vicinato: le donne filavano, gli uomini giocavano, i ragazzi si divertivano coi vitellini. E si cantava in allegria. I capi famiglia che non trovavano lavoro erano costretti ad emigrare all’estero. Chi restava, per trovare occupazione in agricoltura, andavano a (meder in pien) mietere il grano in pianura, e in autunno si trasferivano in Maremma per tagliare legna e fare carbone, a quei tempi il compenso era di uno scudo (£. 5) la settimana, ma il lavoro era quasi sempre a cottimo con guadagni migliori.

Intanto le donne coi figli si industriavano a conservare, rammendare e a raggranellare qualche soldo per l’olio, il sale, il sapone e il petrolio per il lume. I ragazzi andavano a scuola percorrendo a piedi lunghi tragitti e passando il tempo con qualche gioco. In scuola li teneva domi l’immancabile bacchetta sempre a portata di mano della Maestra, finchè finalmente la lezione cessava, allora via di corsa a casa per il pranzo e poi per tutti i lavoretti di competenza. Vita molto semplice ma sana: la malinconia nessuno sapeva cosa fosse. Per tutti, le feste più belle erano quelle della parrocchia; sulle aie si faceva festa per la pigiatura dell’uva, e per la spanocchiatura del granoturco, occasione de vere sagre popolari.

Ma poi incominciarono le guerre, quella di Libia, e tre anni dopo la prima Guerra Mondiale, gli uomini validi partirono soldati; a casa rimasero gli anziani, le donne e i bambini. La vita delle famiglie si fece più dura.

Ricordi di Campeggio
di
Venturino Alce

Immagino di trovarmi nella grande cucina della canonica, seduto davanti al camino dove arde crepitante la legna. Sbuccio le caldarroste cotte sotto le brace. Il vino toscano risveglia la memoria, scioglie la lingua e disseta. Così posso raccontare alcuni ricordi,tra quelli raccolti in 54 anni, in una serata tra amici. Ho visto il canonico don Augusto Bonafè, una sola volta in vita mia, prima della guerra. Ero venuto quassù con altri confratelli studenti di Bologna per una gita – pellegrinaggio. Il robusto e cordiale canonico ci ha fatto da guida a tutte le costruzioni da lui ideate per creare il santuario chiamato “la Piccola Lourdes Bolognese”: la grotta, il viale, la fontana, il calvario, la casa del pellegrino, e in aggiunta il parco delle rimembranze per i caduti.

Le parti degli edifici in pietra viva erano opera di abilissimi scalpellini di Campeggio, veri maestri. Tornai a Campeggio dopo la guerra, non per una gita, ma per recuperare salute e forze con aria pura e cibo sostanzioso. Al posto del compianto arciprete don Augusto trovai p. Giuseppe Salomoni, già mio sottomaestro di noviziato. A servizio della canonica e della grotta erano rimaste le fedelissime sorelle Caterina e Pierina. Il pane lo cuocevano loro al forno e ne sento ancora oggi la fragranza e il gusto. Ogni tanto soggiornava p. Giordano Ghini, il fautore del passaggio della parrocchia ai Domenicani. Arrivavano anche p. Enrico Rossetti e p. Francesco Ragazzi con note di allegria. Costante la presenza di p. Reginaldo Orlandini, organizzatore di memorabili recite nel teatrino.

Ricordo ancora i nomi e i volti delle attrici (quasi tutte canterine) e degli attori, la Maestra faceva da suggeritore, io dipingevo le scene su carta da spolvero. Negli intervalli suonavano fisarmonica e chitarra un fratello di p. Antonio Salomoni e Turun di Brentese, erano serate di gioia piena. Per le feste religiose il ricordo è legato ai doppi delle campane, ero incantato dai giochi musicali che i campanari sapevano inventare con quattro campane: un continuo variare di ritmi, di toni, di cadenze, di melodie. Mi risuonano nell’orecchio e mi rievocano la contentezza dei fedeli orgogliosi di quel concerto che sembrava venire dal cielo. E la “tirata della schirgalesen”, una prodezza del grande “Boci” che qualificava la singolarità di una festa.

Entrando in chiesa ricordo una solenne messa a tre voci del Perosi che abbiamo cantato in quattro: p. Giuseppe suonava l’armonium e faceva da basso, Amedeo Vergnani da baritono, p. Reginaldo e io da tenori. Si cantava per il Signore e per i fedeli, con brio e a pieni polmoni. Per riprendermi dovevo soprattutto camminare, mi faceva un gran bene e mi piaceva, l’unico inconveniente lo creavano le strade che allora erano di terra, quindi polvere nei periodi di secca e fango dopo le grandi piogge. Una volta salendo a Sombilla le scarpe affondavano nel fango e diventavano sempre più pesanti, e al ritorno sono scivolato cadendo con l’abito bianco. Della primavera ho ricordi incantevoli : andando alle Balzale ho sentito una ragazza cantare un inno alla Madonna con una voce chiara, squillante, intonatissima e pur dolce come un flauto : mai più sentito un canto così bello.

Chiesa di Campeggio – Incisione di Padre Venturino Alce.

Ai margini del sentiero, tra i bassi cespugli, si aprivano le viole ai tiepidi raggi del sole e spandevano un delicatissimo profumo. Ne raccoglievo un mazzetto per portarlo alla Madonna di Lourdes. Camminando per sentieri sempre nuovi venni a conoscere tutte le località di Campeggio da Brentese a Valle , dalla Madonna dei Boschi a Cà della Selva, alla Martina a Frassineta. E le famiglie che le abitavano. A Frassineta cominciai ad andare tutte le domeniche per celebrare la messa nella chiesina di quel lontano borgo : a quei tempi andavo a piedi e a digiuno, perciò dopo la messa le famiglie facevano a gara per offrirmi la colazione. Ricordo i Lorenzini e altri in cui mi sfugge il nome; talvolta accettavo l’invito a Cà della Selva dai parenti di p. Rossetti, quanta cordialità, rispetto e semplicità.

Ti rinfrancavano di più le buone maniere che i sostanziosi e gustosi cibi. Più lontano mi portava il cavallo, come a Gragnano o a Monghidoro, salivo a Monghidoro quando dovevo prendere la prima corriera per Bologna, andavo a poggioli quando era ancora buio dalla famiglia Boschi, dove il ragazzino Remo era già pronto con il cavallo bianco. Era la prima volta che montavo a cavallo, con tutti i vestiti da frate e un paio di valigie, durante il tragitto Remo si teneva alla coda, una volta si fermò a una fontana e per bere si abbassò bruscamente: non caddi per miracolo. Ancora più lontano andai, in calesse, a Castelnuovo nel primo anniversario della liberazione, ebbi la grazia di conoscere uno straordinario sacerdote, don Dardani, in una comunità lacerata dalla guerra. Poi anche a Piancaldoli per una festa grossa al posto di padre Giordano.

Col passare del tempo giunsi a conoscere le radici profonde delle famiglie che formavano la parrocchia di Campeggio e la loro evoluzione nei primi anni del dopo guerra. La fede era rimasta profonda e praticata, ma il magro lavoro dei campi non soddisfaceva la gioventù, numerosa ed esuberante, attirata dal lavoro più variato e redditizio della città in piena ricostruzione, una migliore sistemazione le comodità, la prospettiva del benessere facevano presa sulla nuova generazione. Inizia lo spopolamento della montagna, l’invecchiamento e l’isolamento di coloro che non abbandonarono la propria casa. Anch’io rientrai a Bologna. Fino al 1960 non so quante volte tornai a Campeggio per ministero, rafforzando conoscenze e amicizie, affetto e stima per l’intera popolazione.

Fui assente per nove anni continui, perché fatto parroco a Bolzano. Ma quando nel 1970 il provinciale p. Enrico Rossetti mi riportò di peso da Bolzano a Bologna per farmi priore di quel convento, Campeggio tornò a rivedermi, quattro anni dopo divenni successore dell’indimenticabile p. Enrico Rossetti a capo della Provincia, con piena responsabilità anche dei sacerdoti e religiosi addetti alla parrocchia di Campeggio, in una nuova e confortante fase evolutiva. Quando ero teso e non ne potevo più mi facevo portare a Campeggio, e mi riprendevo disegnando paesaggi e case antiche e borgate, ho avuto persino il coraggio di disegnare direttamente sulle lastre di zinco una serie di litografie. Un pizzico di pazzia ? No; un grande amore per la gente di Campeggio.

- Borgo Sombilla - Incisione di Padre Venturino Alce.

Riprendendo il discorso accennando alla nuova tendenza che si andò delineando dal 1975 in poi, non più alla magra montagna alla grassa città, ma da un inquinato benessere materiale all’aria pura delle altitudini rimaste fedeli ai perenni valori della civiltà e cultura cristiana. Le antiche case di pietra restaurate con cura reggono al confronto delle tante villette fiorite in mezzo ai campi trasformati in giardini. Strade moderne asfaltate collegano facilmente la città al paese e i borghi tra di loro, non c’è più né polvere né fango, però ai bordi delle strade, nei tratti che attraversano i boschi, di primavera fioriscono le violette. Peccato che le macchine correndo veloci, impediscano di godere la vista, il colore e il profumo, nel silenzio e nel nascondimento quei fiori lodano Dio.

L’ultima volta che ho visitato Campeggio, in occasione di una festa grossa, mi si è allargato il cuore, non tanto alla vista del mastodontico centro polisportivo e di divertimento, quanto a saperlo costruito con la collaborazione di tutti e al vederlo animato dall’intera comunità riunita in allegra compagnia. Così pure il ricomporsi, attorno al ceppo originario, delle famiglie che contano due o tre o persino quattro generazioni, e udirne le voci gravi e acute e le allegre risate, e osservare i vivaci colori delle vesti che brillano al sole. Al canonico don Augusto Bonafè, arciprete di Campeggio, si deve l’intuizione di un tale progetto e l’inizio dalla sua attuazione. Ai Padri Domenicani il merito di avere seguito la traccia, tenacemente. Ai Campeggiani la saggezza di avere sempre corrisposto ai richiami di fondo, alle direttive essenziali della Chiesa, grazie alla coscienza formata sull’esempio e la parola dei "Vecchi"

Concludo con una sincera confessione : ho dato tanto poco a Campeggio da non saper dire che cosa abbia dato ; ho ricevuto tanto da Campeggio, ma tanto, d’averne il cuore pieno e non saperlo esprimere. Padre Rossetti direbbe che i ricordi di Campeggio che ho scritto in queste pagine sono un solo filo d’erba fra tutti i prati sui monti e nei boschi dell’alta valle dell’Idice.

Periodo seconda guerra mondiale
la rappresaglia tedesca
di
Bernardo Gianluigi Boschi

“…era il 27 Giugno 1944, quando –bimbo paffutello di circa 7 anni e mezzo al mattino fui svegliato da scariche di mitraglie che partivano dalle colline del “maciarel” sopra casa, e dalla finestra della mia cameretta vedevo nel mio orticello i rami falciati dalle pallottole: fu uno strattone della mamma a togliermi prepotentemente dalla finestra al grido “ti possono prendere: tu non puoi sapere”. Per me, in fondo, sembrava un gioco. Ma poco dopo seppi che fu colpita a morte alla finestra della sua casa di Valle di quà, la mamma di un mio compagno di scuola, e i tedeschi continuavano a setacciare le case per cercare uomini, seminando il panico. E poi furono incendiate le case basse del Pergoloso, dei Calzolari, e io al vedere le fiamme – dalla casa del postino- ne fui sconvolto. I tedeschi andarono anche a controllare in chiesa, che non ci fosse qualche partigiano nascosto…”

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(In questa rappresaglia di Campeggio, le vittime furono una persona di 73 anni a Grigano, Benni Angelo Enrico, a Valle una giovane madre di anni 34 Quadrio Maria, al Casetto, Gino Nanni di anni 22, nei pressi di Cà di Cò, Gnesini Vittorio di anni 44. I 40 uomini civili catturati nella rappresaglia a Campeggio e dintorni, vennero portati a Loiano per essere deportati in Germania, o peggio per essere fucilati, poi, raccontano ancora oggi i superstiti, la situazione si sbloccò e ci liberarono).

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“…nell’infuriare dell’attacco alleato ai soldati tedeschi in rotta ( tra l’altro un giovane biondo si era rifugiato in casa nostra e certe sere veniva a trovarci parlandoci della sua fidanzata con le lacrime agli occhi: si è poi suicidato nel fossato), noi – dicevo- del Pergoloso, dopo essere fuggiti dal rifugio della macchia del Poggio in rovina per le piogge autunnali, cercammo riparo in un hangar dell’aia di Zanin: mo proprio lì fummo fatti bersaglio da parte degli alleati di una caduta tremenda di granate. Ricordo soltanto che preso da panico, mi alzai di scatto per scappare… a casa: e mentre davanti a me vedevo il finimondo avvertii sopra di me un corpo umano che mi abbatteva al suolo, e poco dopo i lamenti flebili della mamma che per salvarmi la vita aveva subito lo strazio di tre schegge che le si arano conficcate nel corpo: si salverà all’ospedale di Firenze insieme alla sorella maggiore Bice…”

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(Questo attacco degli alleati: fu la liberazione di Campeggio, erano i primi giorni di Ottobre 1944. I soldati americani dalla V Armata, comandata dal Generale Mark Clark, avevano liberato Campeggio. Dopo mesi di occupazione, miseria e paura, era arrivata la Libertà, e con essa anche l’abbondanza.)


Dal libro "91st Infantry Division in World War 2°"
scritto dal Maggiore Robert A . Robbins
L’attacco: mese di Ottobre 1944
All’inizio di Ottobre, dopo aver superato la “Linea Gotica” la 91esima Divisione si stava dirigendo verso Bologna. Monte Oggioli era stato conquistato e il Passo della Raticosa liberato. Il 30 Settembre, finiti i combattimenti, la Divisione aveva due reggimenti in linea : la 363esima Fanteria a sinistra e la 362 esima Fanteria a destra. Il contatto avvenne sulla linea principale di resistenza prima di Monghidoro, una forte linea di difesa nemica organizzata in fretta dopo la caduta del Passo della Futa. Provedendo la forte resistenza su questo fronte, il Generale Livesay, il 30 Settembre ordinò al 1° Battaglione delle 362 esima di attaccare lungo la strada 65, catturare Monghidoro e raggiungere il terreno dominante al lato nord del paese da dove si poteva difendere bene la posizione contro possibili contrattacchi.
La cattura di Monghidoro

Alle 6.00 del 1° Ottobre i cinque battaglioni attaccarono dopo un fuoco di artiglieria di 3523 tiri. La resistenza nemica intensa con un fuoco pesante di tutti i calibri diretto sugli attaccanti. Con l’aiuto della Divisione di artiglieria che sparò 10.587 tiri durante tutta la giornata, furono fatti limitati avanzamenti, Nel settore della 362 esima Fanteria la Compagnia F si assicurò la Collina 585 e la Compagnia G la Collina 620. La Compagnia E, al centro del Reggimento, incontrò e respinse un severo contrattacco. Quando il nemico attaccò la posizione della Compagnia E, il Sergente Maggiore Jack Green, comandante d’azione di una squadra di mitraglieri, si spostò con la sua mitragliatrice in una posizione avanzata ed esposta e aprì il fuoco. Il suo fuoco accurato uccise 7 nemici e disperse i rimanenti. Quando l’altra arma della sua sezione si inceppò, passò la sua arma al suo assistente, si fece strada verso l’altra, e la mise di nuovo in condizione da poter essere usata.

Poi vedendo molti più tedeschi avvicinarsi da un’altra direzione aprì il fuoco e ne uccise 5. Altri 2 nemici si stavano avvicinando a lui con bombe a mano, incapace di poter far fuoco su di loro, egli ruzzolò indietro, raccolse un fucile, e sparò su entrambi. Più tardi, quando una vicina squadra perse il suo comandante, Green riunì i membri della sua squadra e li mise in posizione per poterli aiutare a respingere l’attacco. Nel frattempo fu colpito al braccio da una pallottola ma si rifiutò di andare nelle retrovie e continuò a comandare i suoi uomini. Poco più tardi, nel combattimento, un plotone di una vicina compagnia, si disperse, e parecchi dei suoi membri vagavano rischiando il fuoco diretto del nemico. A dispetto della sua ferita, il Sergente Maggiore Green prese il controllo di questi uomini e gli assegnò di tenere duramente la posizione. Con queste azioni così sicure e precise, dimostrando la sua capacità di comandare, egli fu decisivo nello svolgimento dell’attacco contro i nemici e nel consolidare la posizione della sua compagnia.

A seguito dell’azione eroica del Sergente Maggiore Green, le Compagnie I e K combatterono insieme alla Compagnia E e raggiunsero posizioni circa 600 yarde a nord. Intorno alle 15.00 la Compagnia B conquistò la Collina 852, a est della strada 65, quel terreno in rilievo, dominante a sud di Monghidoro. L’artiglieria fu particolarmente di aiuto nel feroce combattimento per l’obbiettivo della Compagnia B. A supporto dell’assalto alla Collina 852, il 346esimo Battaglione di Artiglieria da Campo sparò più di 500 colpi. Non appena la Collina fu occupata un forte contrattacco nemico fu sferrato per recuperarla. Il 346esimo Battaglione di Artiglieria da Campo con fuoco di rinforzo del 91esimo Battaglione di Artiglieria da Campo, sperarono più di 1500 colpi verso il nemico causando prima il suo indebolimento poi la disfatta.

Alle 6.00 del 2 Ottobre, tutte le unità della Divisione lanciarono l’attacco che raggiunse il successo meritato dopo i duri combattimenti del giorno precedente. Monghidoro cadde. Perfettamente coordinati, tutti i Battaglioni contribuirono alla vittoria. Alla fine della giornata le linee difensive del nemico fra Monghidoro e Montepiano furono completamente superate. Fu dalla sommità di Monghidoro che i soldati sgomenti videro per la prima volta l’estesa valle del Po e all’orizzonte, le sommità delle Alpi ricoperte di neve. Quella prima veduta, in un giorno limpido e chiaro, fu di una tale emozione che è impossibile descrivere. Il Generale Keyes, Comandante Generale del II Corpo espresse in un telegramma al Generale Livesay, la sua soddisfazione per il rapido successo: “Congratulazioni per la cattura di Montepiano e Monghidoro. Il continuo avanzamento della 91esima Divisione contro un tenace nemico e malgrado le avversità del tempo è un tributo alla sua distinta Divisione”.

Il Generale Clark alla “Crocetta” (Foto archivio Comune di Monghidoro)

Stele alla “Crocetta” a ricordo della liberazione di Monghidoro avvenuta il 2 Ottobre 1944

Avanzata alleata verso nord, zona Monghidoro, Campeggio, Loiano.
Dal libro “Powder River 91st Infantry Division”
scritto da Roy Livengood
La cattura di Monghidoro

Il passo della Raticosa è un luogo roccioso, squallido, e desolato. Anche durante le serene giornate d’estate, che sono una rarità , i venti soffiano rumorosi e freddi attraverso le vallate. Quando comincia la pioggia autunnale, le cime si trovano avvolte dalla nebbia e rimangano così per tutti i lunghi mesi invernali fino agli inizi di primavera. Nei rari giorni estivi, uno può stare lungo la SS 65 e guardare verso Monghidoro e oltre la catena settentrionale dell’Appennino che si estende fino all’orizzonte, poi ci si può voltare e osservare la stessa scena nel versante meridionale della catena montuosa, guardando giù fino a Pietramala: miglia e miglia di burroni, catene montuose, precipizi, pendii, fiumi, affluenti, vallate e colline, sempre con la presenza di venti spaventosi e rumorosi, che scompigliano l’erba e soffiano attraverso i rami dei pini e degli abeti, e la strada che si avvolge sinuosa e ripida.

Questo era il tipo di terreno per le successive 30 miglie, fino ai sobborghi di Bologna. Le truppe della 91 esima divisione erano, adesso, sopra al Passo a 968 metri di quota e si muovevano lentamente verso nord. Avevano conquistato quattro enormi montagne che avevano sbarrato la loro avanzata su per il sentiero di quota: Sasso di Castro, Monte Freddi, Monte Beni, Monte Oggioli, ma molte altre ancora si trovavano davanti a loro e la difficoltà di assicurarsi queste aumentava con l’arrivo delle piogge di ottobre, della nebbia e della foschia. Dopo la caduta del Passo di Raticosa, i tedeschi si ritirarono per quattro miglia fino a una linea di difesa che attraversava la via alta (SS65) alla città di Monghidoro. Questo piccolo paese era l’obbiettivo della 362 esima. Durante la notte del 29 settembre il reggimento attraversò la linea di partenza e partì all’attacco alle 7.30 del mattino successivo.

Una fitta nebbia si stendeva sopra le montagne che rese virtualmente impossibile una rapida avanzata, ma gli uomini avanzarono piano piano sopra le colline, occuparono il piccolo villaggio invernale di la Posta, facendosi strada successivamente fino a Monghidoro, per catturare una collina pesantemente fortificata chiamata 852. Nonostante la divisione di artiglieria sparasse 10.587 bordate per supportare l’attacco su Monghidoro, solo piccolissimi progressi vennero fatti nella giornata del 1 di ottobre. La mattina successiva, il terzo battaglione, tagliò l’alta via 65 a nord del villaggio, mentre il secondo battaglione prese il piano che si affaccia ad Est sulla valle del Fiume Idice. Nel frattempo la compagnia C supportata da 9 carri armati, del 755 esimo battaglione carri e da due plotoni di assaltatori di carri, raggiunse Monghidoro combattendo e liberò le strade, casa per casa. Il giornale S3 del 755 esimo, registrò le azioni di quei giorni disperati.

Ospedale militare americano1944 -1945, alla Mazzetta, Pietramala.

Voglio ricordare anche quei soldati Italiani: che molto poco si è parlato, che dopo l’8 settembre, con il Corpo Italiano di Liberazione, inquadrati nei “Gruppi di Combattimento Italiani”, “CREMONA” “FRIULI” “FOLGORE” “LEGNANO” “MANTOVA” “PICENO” combatterono a fianco degli alleati per la liberazione del suolo Italiano, con uniformi, armi e munizioni inglesi, ma col cuore, cappello, e penna italiani. C’erano anche gli alpini dei Battaglioni “Piemonte” e “ L’Aquila” i Bersaglieri del battaglione “Goito”, inquadrati nel gruppo di combattimento Legnano, dopo le battaglie a Monte Lungo, e Monte Marrone, rientrano in linea il 18 Marzo 1945 nella nostra Valle dell’Idice, (fronte di Bologna). Il 23 Marzo 1945 la “Legnano” era in quel di Campeggio, si dispone il IX Reparto d’assalto. In una sommità dominante le valli Idice e Zena, trasformata dai tedeschi in terribile fortilizio, cerniera tra la 14^ e la 10^ armata tedesca. Per la conquista di quota 363 viene disegnato il battaglione bersaglieri “Goito”: ma il 19 Aprile, il gioco di imprevisti, affida all’improvviso il difficile compito agli alpini del Piemonte, che da un mese fronteggiano le dominanti posizioni della 363. La 2° compagnia del Piemonte parte attacca, penetra, si ferma, in una tempesta di fuoco. Il comandante chiede altri 10 minuti di fuoco celere e poi l’immediato allungamento del tiro, dopo minuti che sembrano anni, giunse la laconica notizia: caposaldo conquistato. Mentre L’Aquila e il Goito combattevano coraggiosamente a S. Chierico e Monte Armato, per conquistare quota 459 ottenendo nuovi successi, non senza dolorose perdite, 25 uomini caduti e 32 feriti.
La via verso la pianura è aperta. (Gilberto Tedeschi).

dal libro
- Madre Orsola Mezzini-
di
Elia Facchini - Ruggero Rambaldi


Campeggio: paese di sogni

La strada che da Bologna conduce a Campeggio, paese natale di Orsola Mezzini e che si snoda in infinite curve e contorcimenti, è meravigliosa come una favola. Il nastro d’asfalto, dapprima dolce e molle, adagiato su declivi appena mossi, s’impenna d’un tratto e aggredisce fianchi di montagne ripide e arcigne, per acquietarsi in ampi spazi soleggiati dove l’occhio si perde in scenari infiniti e profondità vertiginose. Con questo godimento negli occhi, abbiamo percorso i trentasette chilometri che portano alla chiesa, passando tra visioni stupende e meraviglie a ripetizione causate da una splendida giornata autunnale inondata di sole. C’era un nonsochè di magico, di vivo, di effervescente che ci scoppiettava attorno come un favoloso fuoco d’artificio.

Erano le foglie che riflettevano i raggi del sole, ma il loro colore autunnale e il loro perenne agitarsi provocava un magico sfarfallio che dava la strana sensazione di trovarsi di fronte a una foresta incantata, piena di piccole luci che si accendevano in una girandola continua. Ogni curva ci offriva il suo spettacolo e i suoi fondali sempre nuovi. Ecco la pennellata di verde cupo buttata sapientemente tra il giallo delle foglie cadenti, è un ciuffo di abeti e cipressi addossati ad un’antica Pieve. Di qua una spruzzata di rosso carminio lungo la dorsale del monte, offerto da una vigna dalle foglie languide e sanguigne. La tavolozza è ricchissima, perché c’è il cupo dei tronchi e dei rami ormai nudi, l’incerto colore delle case e il rosso dei tetti.

E poi l’azzurro del cielo e il bianco delle nuvole vaganti, il grigio delle rocce e il verde muschio delle acque rumoreggianti dell’Idice. Insomma un trionfo di luci, di colori e di sogno. E le guglie dei campanili ? Dita protese a indicare il cielo, svettano agili tra i rami, esortando, richiamando e cantando. Dopo aver lasciato sulla sinistra il bivio per Sasso Leone con le sue aspre montagne di arenaria grigia e tormentata e aver salutato la valle che porta a Loiano, si arriva a San Benedetto del Querceto, così chiamato per i boschi sterminati di querce. Il colore dominante è il marrone in tutte le sue gamme: dal color nocciola chiaro, al giallo di Siena, fino al color scuro noce. E questo gioco di toni diversi dello stesso colore dà l’effetto di una natura trafitta da fasci di luce. Ed ecco la freccia: Campeggio. Ancora quattro chilometri e siamo sul sagrato della chiesa, bianca e dignitosa…

Dal libro – Ricchezze e Miserie d’Altri Tempi
di
Graziana Monti


Campeggio

Una meta di gite frequenti era il Santuario della Madonna di Campeggio. Si impiegavano circa due ore per raggiungere il santuario al quale affluivano ogni anno molti pellegrini. Attraversando le colline verso Gragnano, e per sentieri e viottoli si raggiungeva il monte Calvario, dove il parroco don Augusto Bonafè aveva fatto erigere nel 1930 tre altissime croci ricordanti il Calvario di Gerusalemme.

Sopra il Calvario levansi tre Croci
Commosso ascolto le potenti voci
della tripla mole.
Dice la Croce: "Segno io son di vita;
segno io sono di morte.
L’umanità ribelle ovver pentita
Mi scelga per eterna sorte".

Si scendeva il monte lungo un sentiero serpentino e pittoresco in mezzo a eriche e ginestre profumate. Alberi di querce ombreggiavano il percorso lasciando filtrare macchie di sole. Ai piedi del monte quasi per incanto ti attendeva, accogliendoti al suo monumento, una bella fontana di acqua fresca per dissetarti dal lungo viaggio. " Omnes sitientes venite ad acquas "( O voi tutti che avete sete venite ed io vi ristorerò). E per completare, vicino alla fontana, lunghe panche e tavole rustiche, sotto a un fresco pergolato di edera, accoglievano i pellegrini al riposo e al ristoro. Il parroco don Bonafè non mancava mai di venire a salutare i nuovi arrivati. Veniva incontro allargando le braccia e , sorridendo benevolmente, esclamava: "Venite! La Madonna vi aspettava!". E accompagnava subito i pellegrini alla grotta della Bianca signora dei Pirenei.

La grotta è un vero capolavoro, opera di un artigiano bergamasco Guelfo Ravasio, e merito del parroco don Augusto Bonafè che, dopo varie visite a Lourdes, la volle costruire a sue spese nel 1923 in Campeggio, a destra della chiesa parrocchiale. Ripete fedelmente la famosa grotta di Massabielle : le volte rocciose, la nicchia con la Madonna, la cascata d’acqua, la fontana, Bernardetta inginocchiata davanti in atto di pregare. Il tutto, avvolto di silente pace, dona al cuore profonda commozione. Ancora oggi è meta di pellegrini e migliaia di attestati confermano quante grazie e favori abbia elargito in questi anni la Bianca Signora dei Pirenei.

Dal libro – Quando gli spiriti erano di casa.
di
Graziana Monti


Lo scalpellino

Un novantenne, tempo fa, spronato dalle mie domande, mi raccontò che si, a Campeggio, l’avevano visto in molti l’omino che di notte nel "fos dei Zer" (nel fosso del Cerro) batteva col martello sulla pietra come usavano gli scalpellini. A Campeggio, in quei tempi, il mestiere dello scalpellino era quello più praticato e si diceva che questo omino fosse lo spirito di un qualche morto condannato anche nell’altro mondo a lavorare ancora la pietra. Molte notti si sentiva il battere del martello. Una notte un giovane più coraggioso degli altri si avvicinò a questa ombra e gli chiese più volte chi fosse e come mai lavorasse a quell’ora. Non ebbe nessuna risposta, ma a un tratto l’omino smise di battere e con una stridula risata si dileguò fra gli alberi.

Questo fatto mi è stato confermato da un altro campeggiano novantenne, perfettamente lucido di mente : Armando Salomoni. Mi diceva : - Amarcord, quando ero giovane che si vedeva sì, uno spirito dentro al fosso del Cerro.- Questo spirito aveva le sembianze di un omino piccolo, con la barba bianca e un lanternino in mano. L’avevano visto in molti ; girava quasi ogni notte su e giù per il fosso del Cerro. Chi non l’aveva visto di persona, aveva visto nella notte il lumicino vagare avanti e indietro fino alle prime luci dell’alba. Ci fu uno che, per scommessa, volle fare il coraggioso: in piena notte andò sul posto e si mise a sedere lungo il fosso, sotto un cerro, aspettando che passasse l’omino. Le ore passavano, ma qui non succedeva nulla.

Di quando in quando sentiva solo cantare la civetta col suo lugubre verso. Faceva anche freddo e si rannicchiò avvolto nella capparella. Il silenzio diventò insopportabile. Man mano che passavano le ore i suoi occhi si spalancavano sempre di più fissando il buio, mentre ad ogni piccolo rumore il nostro uomo trasaliva e il cuore gli martellava nel petto. Si era già pentito di aver fatto questa spacconata e rimpiangeva il suo letto caldo imbottito di foglie di granoturco. Ma ormai si era compromesso con gli amici volendo dimostrare di non aver paura, anzi, beffandosi di coloro che, "neanche per sogno", sarebbero andati al fosso del Cerro di notte per incontrare un fantasma.

Intanto per farsi coraggio il nostro eroe cercava di ridere pensando all’indomani, quando avrebbe raccontato che non aveva visto proprio un bel niente, che quelle erano tutte fantasie che venivano in testa alla gente per la debolezza dovuta al fatto di dover mangiare sempre e solo polenta. A questo punto non si sa cosa gli fosse successo perché nessuno riuscì mai a farsi raccontare quello che aveva visto quella notte. La curiosità di sapere era diventata di dominio pubblico e tutti, in zona, parlavano del fatto strano che il nostro amico l’indomani aveva tutti i capelli bianchi, mentre il giorno prima arano neri. Gli amici lo spiavano e insistevano affinché raccontasse, ma lui taceva.

Aveva persino cambiato carattere, era diventato improvvisamente un uomo serio : non andava più neanche all’osteria. Si seppe solo che si ara recato dal prete a ordinare tre messe. Da allora nessuno vide più il fantasma e neppure la luce da lontano. Anche la gente pian piano smise di parlarne e anche il ricordo svanì come un sogno d’estate.

Gilberto T . Campeggio - 2008 -